(Adnkronos) – E’ stato il provvedimento bandiera del governo Renzi. Il Jobs act, arrivato quando anche il Partito democratico era renziano, ha subito nel tempo correzioni che oggi tornano attuali. Il governo Meloni, guardando all’esigenza di assicurare flessibilità al mercato del lavoro, pensa di muoversi sostanzialmente in linea con quell’impianto, intervenendo per ridimensionare i limiti all’utilizzo dei contratti a termine, mentre i quattro candidati alla segreteria del Pd si dividono, con il solo Stefano Bonaccini a difenderlo, almeno in parte.
C’è chi ritiene le norme del Jobs act utili alla flessibilità e chi le ritiene portatrici di precarietà. Un dilemma eterno quello tra le due facce di una stessa medaglia, quello che è flessibile per l’impresa può diventare precario per il lavoratore. Strettamente legato c’è l’altro tema di fondo, il tentativo di estendere tutele a chi non ne ha, che da una parte viene letto come un elemento di progresso e, dall’altra, come una regressiva perdita di diritti per chi è invece già tutelato.
Il ministro del Lavoro, Marina Calderone, non ha mai fatto mistero di apprezzare la riforma renziana. Anzi, l’ha sostenuta e difesa durante la sua vita precedente, quella di presidente dei Consulenti del lavoro. Ora, titolare della politica del governo sul lavoro, secondo diverse indiscrezioni, sembra indirizzata verso un provvedimento che preveda nuova vita per i contratti a tempo determinato. La legge in vigore dice che si possono assumere le persone con contratto a tempo determinato per massimo 12 mesi senza alcuna causale. Dopo i 12 mesi, per prorogare lo stesso contratto di altri 12 mesi, bisogna indicare la motivazione per cui si ricorre ancora al tempo determinato. Esauriti i 24 mesi, non si può più procedere con la proroga del contratto a tempo, quindi o la persona viene assunta in modo stabile o non può più lavorare nell’azienda. Allo studio dell’esecutivo ci sarebbe un decreto che potrebbe allungarne la durata in assenza di causale fino a 36 mesi.
Il Jobs act intanto divide i quattro candidati alla segreteria del Pd. Stefano Bonaccini, che esprime l’area più liberal e che ha un passato renziano, difende sostanzialmente il provvedimento: “il lavoro è la questione centrale per l’identità e le battaglie che il nuovo Pd farà in Parlamento e nel Paese” ma “all’Italia serve un cambiamento profondo, radicale e complessivo, non basta quello di una singola norma”. Elly Schlein bolla il Jobs act come “l’errore che ha provocato una frattura profonda con il mondo del lavoro e con i lavoratori che non si sono riconosciuti in quelle scelte”. Paola De Micheli vuole “riscrivere da zero le regole sul lavoro e non stare lì a cincischiare su minimi correttivi”. Gianni Cuperlo sostiene che “andrebbe cambiato per offrire un sistema certo di garanzie ai lavoratori a tempo determinato”.
Sono passati quasi dieci anni, era il 2014, dalla prima stesura del Jobs act. Da allora la domanda che ricorre è la stessa: va potenziato o va abolito? (Di Fabio Insenga)