(Adnkronos) – “Amo tantissimo Roma e amo visitarla. In realtà, ho un debole per Copenaghen, è una città che amo. Non so se vivrei a Roma, ma ci passo molto tempo, quindi spero che la quinta stagione si farà così avrò l’occasione di tornare a girare ancora in Italia. Qui mi sento a casa”, così Lily Collins, protagonista di ‘Emily in Paris’, all’Adnkronos in occasione della sua visita a Roma per la premiere della seconda parte della quarta stagione della serie ambientata nella ‘città eterna’ (dal 12 settembre su Netflix).
“Per questi nuovi episodi ci siamo ispirati molto a ‘Sciarada’ (film del 1963 con Audrey Hepburn e Cary Grant’, ndr) e ‘Vacanze romane’ (film del 1953 con Audrey Hepburn, ndr) nell’eleganza e nella grazia ma anche nell’eccitazione che mostrano gli occhi spalancati di Emily (in giro per Roma, ndr), come quelli di Audrey Hepburn. È stato bello renderle omaggio”, racconta l’attrice. Alla domanda ‘sono più romantici i parigini o i romani’, Collins non scontenta nessuna: “Con ‘Emily in Paris’ mostriamo come entrambe le culture abbiano modi diversi in amore. Personalmente posso solo parlare del modo in cui mio marito mi dimostra l’amore, lui non è né francese e né italiano”.
Emily, invece, “in questi nuovi episodi sta sperimentando diversi tipi di amore che si tratti dell’amicizia con Mindy (Ashley Park), dell’amore con Alfie (Lucien Laviscount), con Gabriel (Lucas Bravo) e forse con Marcello (Eugenio Franceschini, new entry nel cast insieme a Raoul Bova). Penso che ogni esperienza e cultura le porti qualcosa di diverso”. Quattro stagioni e ancora tanto da raccontare, a partire da Emily che non ha più paura di mostrarsi vulnerabile. “Questa serie racconta l’amore delle donne verso se stesse e il proprio lavoro e questo non ha nulla di negativo”, sottolinea l’attrice, che tra ‘demure’ (‘riservata’, ‘pudica’) e ‘brat’ (‘monella’, ‘ribelle’) – un trend che sta spopolando sui social – sceglie di essere ‘mindful’, ovvero ‘attenta’. “Per la maggior parte del tempo sono così. Ma, a volte, esce fuori un po’ di impertinenza, che mi rende ‘brat’”, conclude. (di Lucrezia Leombruni)